lunedì 26 settembre 2016

Mamma Roma

"Per arrivare a Cecafumo – al mercato di Cecafumo – al posto cioè dove oggi dobbiamo lavorare – ho fatto una strada bellissima, tra le sette e le otto di mattina, che è un’ora in cui c’è una luce che conosco pochissimo perchè io di solito dormo fin tardi. Sono venuto lungo la Garbatella, le mura di San Sebastiano, l’Appia Antica, l’Appia Pignatelli, fino ad arrivare sull’Appia Nuova, e da qui attraverso degli enormi ruderi – gli archi dell’Acquedotto a cui sono aggrappati villaggi di tuguri – sono arrivato a Cecafumo (…).

Sono arrivato, e sul posto di lavoro mi aspettava tutta la troupe, le facce illuminate dal sole – sempre quel famoso sole quasi cadaverico e, nello stesso tempo, felice. E, mentre si girava la prima inquadratura, che è una specie di balletto contro i ruderi, eseguito dagli amici di Ettore (cioè del protagonista del film), mi è stato detto che la Magnani voleva vedermi un momento, prima di girare la sua sequenza.

Sono andato da lei che si era installata in una delle case tutte uguali costruite dall’Ina-Casa qui a Cecafumo. Un appartamentino di operai, ben tenuto, con mobili poveri, ma modernissimi, di compensato e di metallo, puliti e pieni di dignità: era dentro l’intimità di questa famiglia che l’ospitava, con i suoi truccatori e la sua parrucchiera, che si era accampata Nannarella.

Stava davanti allo specchio, con la sua angosciata tranquillità, la sua scontentezza, il suo impeto. Quello che doveva chiedermi era se quel giorno poteva recitare senza la parrucca (che di solito si mette, per comodità) in quanto voleva avere la faccia “sua”, completamente “sua”, per recitare l’ultima scena del film. La scena in cui le viene annunciato che suo figlio Ettore è morto e lei fugge urlando verso casa. Voleva chiedermi solamente questo. E l’ha fatto con un’aria talmente infantile, talmente sospesa, che mi ha commosso.

Aveva capito perfettamente il mio desiderio di vederla ingenuamente così com’è – quasi senza trucco, con la sua faccia vera – nel momento più tragico e doloroso del film.

Questo è un piccolo sintomo di come in realtà dopo un giorno soltanto, e non più, di crisi, i rapporti tra me e lei sono corsi via lisci, limpidi, leali.

Il problema praticamente era questo: io giro a brevissime inquadrature – inquadrature che non durano più di due, tre minuti al massimo – dei primi piani, delle figure intere, dei movimenti elementari – che poi coordino in montaggio che è esattamente quello che ho in mente prima di girare.

Ora la Magnani non è preparata a questo tipo di ripresa: è abituata, evidentemente, alle inquadrature lunghe, articolate, in cui lei apare in tutta la sua pienezza, coglie il personaggio sfumatura per sfumatura, di minimo passaggio in minimo passaggio, in tutte le più dettagliate e infime fasi dell’espressione. Così lavora da anni e quindi capisco che per lei sia stato difficilissimo adattarsi ad un genere di lavoro che invece coglie i sentimenti, le espressioni, i passaggi psicologici in un momento culminante, assoluto e fermo.

Qualcuno mi dice che la Magnani desidera parlarmi e io salgo da lei, nella stanzetta della famiglia di Cecafumo che la ospita.

Tira l’aria delle grandi occasioni. C’è il problema dell’inquadratura vista ieri, che ci ha angosciato, per diverse ragioni, tutti e due. E su questo siamo tutti e due d’accordo: è una inquadratura che va rifatta.

Io: «Discutiamo di questa inquadratura, Anna. L’inquadratura in cui tu ridi e chiedi a tuo figlio “E’ bella questa motocicletta che ti ho comprato? E’ come la volevi te?” Quel riso, parlami di quel riso».

Anna: «Quel riso. Tu sai meglio di me che, pur restituendo lo spirito con cui tu l’hai concepito, quel riso si può eseguire in tante maniere diverse. Il riso può venire prima, può venire dopo, può venire in anticipo, può venire in ritardo. Io sono una cosa fragilissima. C’è stato un momento in cui ho cominciato la scena e, all’azione, tu mi hai gridato “Ridi, ridi. Anna!” e io ho fatto una risata cretina. Mi sembra che il mio riso in quell’inquadratura sia falso, e siccome non mi è venuto spontaneo – e su questo mi sembra che sia d’accordo anche tu – mi ha fatto perdere l’equilibrio del resto della battuta. Insomma recito male, si, recito male, io, di cui si dice che sono un’attrice consumata, una vecchia volpe…».

Io: «Nel caso della cattiva riuscita di questa inquadratura siamo d’accordo. Però ciò che vorrei farti notare, non proprio a proposito di questa inquadratura, ma a proposito di molte altre inquadrature simili, è questo: il dirti “Ridi, ridi” mentre stai per recitare, cioè il mio imbeccarti dal di fuori, in una specie di iniezione di espressività, è un’abitudine che io ho preso facendo recitare gli attori della strada, alle cui facce io devo dare un colpo di pollice nel momento per loro più inaspettato, quasi a tradimento. Ora tu devi saper comprendere e perdonare questi miei interventi».

Anna: «Ma certo, ed è per questo che ne parliamo con tanta tenerezza e tanta amicizia. Io ho capito benissimo che tu funzioni con degli attori che prendi e plasmi come una materia grezza. Essi, pur con la loro intelligenza istintiva, sono dei robot nelle tue mani. Ora, io non sono un robot».

Io: «Ma questo è una difficoltà che io avevo calcolato. Anna. Amalgamare te con gli altri era il problema principe del mio nuovo lavoro di regista: ne avevo piena coscienza all’inizio del film. Non sarebbe meglio, su questo, essere reticenti?».

Anna: «No, io credo che occorra avere dei piccoli conflitti di chiarificazione. La via d’intesa tra due persone intelligenti si trova sempre. Altrimenti io ho la sensazione di funzionare senza avere la coscienza di quello che faccio; invece io ho bisogno, assoluto, di avere questa coscienza».

Io: «Questo, più che chiedertelo, lo pretendo. Non voglio che in tutto il nostro lavoro ci sia il minimo d’incoscienza in quello che fai. Dunque: sulla questione specifica di questa inquadratura del “Ridi, ridi, Anna!” siamo d’accordo su due cose: sul fatto che ho torto di intervenire quando reciti; un torto in parte giustificato… e sul fatto che tu hai accettato la mia possibilità di girare unicamente come giro, a piccole monadi figurative».

Anna: «Ah, alle volte, prendere una scena e cominciare dalla fine, mi scombussola un pochino, perchè non so com’è, come dev’essere l’inizio. Certo tu lo sai… però, da attrice cosciente, vorrei saperlo anch’io!».

(Pier Paolo Pasolini - tratto da “Mamma Roma, Racconto Diario Film")


Anna

Confusi con la pioggia
              sul selciato
              sono caduti
              gli occhi che vedevano
              gli occhi di Nannarella
              che seguivano
              le camminate lente
              sfiduciate
              ogni passo perduto
              della povera gente.
Tutti i selciati di Roma
              hanno strillato.
Le pietre del mondo

              li hanno uditi "
(Eduardo De Filippo)


«Mi piace parlare della casa che mi ha visto bambina.
Spesso, quando sono a Roma, passo sotto le finestre e le guardo. Ho voglia di salire i quattro piani, di bussare alla porta e dire: Buongiorno, sono nata qui, posso entrare? Avrei una voglia matta di comprarla, quella casa. Lo farò. Sarà come entrare nuovamente nel grembo di mia madre.
Una così bella casa, sul Campidoglio, con vista sul Palatino! Sì, sarà come ricominciare a vivere.
La mia stanza era là, alla seconda finestra a destra. Che bella la mia cameretta. Era tutto, per me. Così semplice, così ordinata. La pulivo tutti i giorni; volevo che fosse come un castello. In quella stanza ero sola al mondo, imparavo che cosa significa la solitudine. Allungata sul letto, gli occhi chiusi, sognavo. Era il mio gioco preferito. Sono al mare. C è il sole, ci sono le onde, la sabbia è calda. Adesso piove, e la terra emana il suo inconfondibile odore di terra. Viaggiavo molto lontano con la mia fantasia. Attraversavo muri, scalavo montagne, camminavo, camminavo, senza che nessuno potesse fermarmi…»


(Anna Magnani - tratto da “Anna Magnani. La Biografia” di M. Hochkofler)

venerdì 23 settembre 2016

“Dopo quasi nove anni Ninetto non c’è più. Ho perso il senso della vita. Penso soltanto a morire o cose simili. Tutto mi è crollato intorno: Ninetto con la sua ragazza, disposto a tutto, anche a tornare a fare il falegname (senza battere ciglio) pur di stare con lei; e io incapace di accettare questa orrenda realtà, che non solo mi rovina il presente, ma getta una luce di dolore anche in tutti questi anni che io ho creduto di gioia, almeno per la presenza lieta, inalterabile di lui. Ti prego, non parlarne con persona al mondo. Non voglio che si parli di questa cosa”. (Lettera all’amico Paolo Volponi)


mercoledì 21 settembre 2016

“Cara Maria”, “Pier Paolo mio”

Quando Maria Callas incontrò Pier Paolo Pasolini per girare Medea era una diva secondo alcuni ormai sul viale del tramonto, ma ancora in primissimo piano come personaggio da rotocalco. L´armatore greco Onassis, con cui aveva vissuto per nove anni, l´aveva lasciata per sposare la vedova Kennedy con uno sciame di pettegolezzi praticamente infinito. «Nove anni di sacrifici inutili», aveva commentato lei. L´incontro con Pasolini era stato propiziato da Franco Rossellini che con Marina Cicogna avrebbe prodotto il film: la Callas poteva essere un´ottima Medea e naturalmente un formidabile aiuto per un successo internazionale. Pasolini non era mai stato un frequentatore di teatri d´opera. Aveva visto un Trovatore a Bologna, quando aveva diciotto anni e non si era entusiasmato. Molti anni dopo, un Rigoletto visto a Caracalla con Ninetto Davoli gli era piaciuto, ma questo non cambiava niente. Nico Naldini dice che confondeva Cherubini con Boccherini.

Gli piaceva la musica classica che ascoltava in casa sua o da Elsa Morante che aveva una discoteca molto ben scelta, ma molto meno l´opera. Comunque della Callas voleva tutto meno la cantante o la diva: gli era piaciuto il viso, che rimandava a una realtà contadina primigenia, un viso addolcito dai trascorsi borghesi, ma molto intenso e vero. Pasolini disse a un certo punto che la Callas aveva la stessa verità di un Franco Citti preso dalla strada, come se dalla strada e non dal palcoscenico venisse anche lei. L´avrebbe ripresa con dei lunghi primi piani, mentre lei, che aveva avuto come regista anche Visconti, era abituata a stare in scena con il pubblico a una certa distanza. Le avrebbe spiegato la differenza tra il cinema e il teatro nella lettera ritrovata ed esposta in questa mostra in casa Testori a Novate, una lettera scritta dopo una giornata di lavoro insieme sul set, quando aveva notato in lei il turbamento per non essere stata pienamente padrona di sé e del suo corpo. «Questo stringimento al cuore lo proverai spesso, durante la nostra opera: e lo sentirò anch´io, con te. È terribile essere adoperati, ma anche adoperare».

Il cinema, le spiega ancora nelle righe successive, è fatto così: una frantumazione della realtà che poi viene ricomposta «nella sua verità sintetica assoluta». Medea fu un film faticoso: le riprese in Cappadocia, che figurava come l´antica Colchide, poi a Grado dove il Centauro ammaestra il giovane Giasone e infine a Pisa nella Piazza dei Miracoli dove, ad onta di ogni plausibilità cronologica, Pasolini aveva posto la Ragione in omaggio a Galileo: la razionale Corinto che si opponeva a Medea.

La Callas aveva avuto dalla produzione una cameriera, Bruna, oltre alla sua assistente Nadia Stancioff. Non lasciava mai i suoi due cagnolini. Il rapporto con Pier Paolo divenne intenso: fu più di un´amicizia e a un certo punto, complice una foto scattata in aeroporto dove si vedono i due scambiarsi un bacio sulle labbra, si parlò addirittura di amore. Ne parlarono cioè i rotocalchi e i giornalisti più inclini al gossip e la storia fu ripresa diverse volte. Uno scrittore spagnolo, Terence Moix, la rielaborò e voleva anche farne uno spettacolo.

In realtà si trattava di un amore impossibile, anche se tra i due c´era affetto e profonda confidenza. Pasolini era disperato perché Ninetto Davoli lo stava lasciando per una ragazza. Nell´agosto del ´71 aveva scritto a Paolo Volponi: «Sono quasi pazzo di dolore. Ninetto è finito. Dopo quasi nove anni Ninetto non c´è più. Ho perso il senso della vita. Penso soltanto a morire o cose simili. Tutto mi è crollato intorno: Ninetto con la sua ragazza disposto a tutto, anche a tornare a fare il falegname (senza battere ciglio) pur di stare con lei; e io incapace di accettare questa orrenda realtà, che non solo mi rovina il presente, ma getta una luce di dolore anche in tutti questi anni che io ho creduto di gioia».

La Callas fu messa a parte della tragedia e gli scrisse: «Sono infelice per te, ma contenta che ti sei confidato in me. Caro amico – sono infelice che non posso essere vicina in questi momenti difficili per te – come lo sei stato tu spesso con me. Tu sai bene in fondo che sarebbe andata così. Ti ricordi a Grado in macchina si parlava e con Ninetto di amore e che so io – dentro in me – le mie antenne tu dici – me lo dicevano quando Ninetto diceva che non si innamorerebbe mai – sapevo che diceva delle cose che era troppo giovane per capire. E tu in fondo uomo tanto intelligente – lo dovevi sapere. Invece ti attaccavi anche tu a un sogno – fatto da te solo – perché è così anche se ti addoloro con questa predicuccia piccola…».

Non è la prima volta che la Callas, che si firma «Maria (fanciullina)», si incarica di dire a Pier Paolo cose magari spiacevoli. In una lettera scritta «dalle nuvole» e cioè da un aereo della Olympic Airways in volo per New York, arriva a dirgli che l´amicizia di Alberto Moravia (con il quale lei e Pier Paolo insieme a Dacia Maraini avevano condiviso un viaggio in Africa) non l´ha mai del tutto persuasa.

«Sai, caro amico, di veri amici – o veri e basta, pochi ne ho trovati, per non dire nessuno… E ci tengo alla tua verità e sincerità. Siamo assai legati psichicamente – oso dire come raro si fa in vita». Un italiano dalla sintassi bizzarra, chiosa Nico Naldini nella sua Breve vita di Pasolini, «forse appreso nei corridoi dei teatri».

«Assai legati psichicamente»: Maria Callas coglie la profondità di un rapporto che non è semplice amicizia. Per Maria Pasolini riprende a dipingere in modo oserei dire carnale, usando elementi naturali, come il succo dei fiori, per Maria si adatta a fare una crociera con il panfilo di Onassis e a passare una vacanza nella sua isola, per Maria scrive poesie che Enzo Siciliano ha interpretato con finezza nella sua Vita di Pasolini. «La donna è per Pier Paolo “riapparizione ctonia” – riapparizione da un viaggio compiuto in luoghi mai percorsi. La donna torna con una notizia, la notizia del “vuoto nel cosmo” […] In Maria, Pier Paolo – una sera a Parigi (“Parigi calca dietro alle tue spalle un cielo basso/con la trama dei rami neri”) lesse una richiesta d´amore: amore fra donna e uomo. Vi lesse la consueta, antica, donnesca richiesta che l´uomo sia “padre”. Pier Paolo, a quella richiesta, non poteva dare risposta».

Le poesie per Maria figurano in una delle raccolte più problematiche di Pasolini: Trasumanar e organizzar uscita per la prima volta nel 1971. La precedente raccolta, Poesia in forma di rosa risaliva al 1964, dunque Trasumanar è un ritorno alla poesia dopo un lungo silenzio, con la volontà di tracciare alcune linee guida per il proprio scrivere versi. Trasumanar è, come si sa, un verbo dantesco e viene dal primo canto del Paradiso. Trasumanar è andare oltre l´umano, cui segue, nella Commedia, «significar per verba», cioè dare senso attraverso le parole. Pasolini gioca con il dettato dantesco, fino alla parodia («Manifestar significar per verba non si poria») e detta all´Ansa, per gioco, la propria scelta stilistica: «Smetto di essere poeta originale, che costa mancanza/ di libertà: un sistema stilistico è troppo esclusivo./Adotto schemi letterari collaudati per essere più libero./Naturalmente per ragioni pratiche». Andrea Zanzotto colse bene la difficoltà dell´insieme. I critici non si mossero per questa raccolta e Pasolini, provocatorio, si recensì da solo sul Giorno. Ma la poesia più luminosa non è tra quelle per Maria Callas: è una poesia per Ninetto, datata 2 settembre 1969. Si conclude così: «Della nostra vita sono insaziabile/ perché una cosa unica al mondo non può essere mai esaurita».

Pier Paolo Pasolini, da “la Repubblica”
Cara Maria, stasera, appena finito di lavorare, su quel sentiero di polvere rosa, ho sentito con le mie antenne in te la stessa angoscia che ieri tu con le tue antenne hai sentito in me. Un´angoscia leggera leggera, non più che un´ombra, eppure invincibile. Ieri in me si trattava di un po´ di nevrosi: ma oggi in te c´era una ragione precisa (precisa fino a un certo punto, naturalmente) ad opprimerti, col sole che se ne andava. Era il sentimento di non essere stata del tutto padrona di te, del tuo corpo, della tua realtà: di essere stata “adoperata” (e per di più con la fatale brutalità tecnica che il cinema implica) e quindi di aver perduto in parte la tua totale libertà. Questo stringimento al cuore lo proverai spesso, durante la nostra opera: e lo sentirò anch´io con te. È terribile essere adoperati, ma anche adoperare.

Ma il cinema è fatto così: bisogna spezzare e frantumare una realtà “intera” per ricostruirla nella sua verità sintetica e assoluta, che la rende poi più “intera” ancora. Tu sei come una pietra preziosa che viene violentemente frantumata in mille schegge per poter essere ricostruita di un materiale più duraturo di quello della vita, cioè il materiale della poesia. È appunto terribile sentirsi spezzati, sentire che in un certo momento, in una certa ora, in un certo giorno, non si è più tutti se stessi, ma una piccola scheggia di se stessi: e questo umilia, lo so.


Io oggi ho colto un attimo del tuo fulgore, e tu avresti voluto darmelo tutto. Ma non è possibile. Ogni giorno un barbaglio, e alla fine si avrà l´intera, intatta luminosità. C´è poi anche il fatto che io parlo poco, oppure mi esprimo in termini un po´ incomprensibili. Ma a questo ci vuol poco a mettere rimedio: sono un po´ in trance, ho una visione o meglio delle visioni, le “Visioni della Medea”: in queste condizioni di emergenza, devi avere un po´ di pazienza con me, e cavarmi un po´ le parole con la forza. Ti abbraccio.