giovedì 26 marzo 2015

"Nel Pallone"

"Nel pallone" è un viaggio personale, sociale e appassionato dietro il gioco del calcio. 

Con interventi di Valerio Mastandrea, Enrico Brizzi, John Foot, Roger Bromley, Andrea Aloi, Emidio Mimì Clementi, Matteo Marani, Stefano Bonaga, Simone Pieranni, Luca Pisapia, Paolo Sollier, Tonino Cagnucci, Ivan Grozny, Mauro Valeri, Simone Conte, Luca Di Bartolomei, Pete Wheatherby, i Mogwai, i Giuda, Francesco Totti, Paolo Pulici, i tifosi-soci dello United di Manchester, la polisportiva del Castel di Sangro, i bloggers di Lacrime di Borghetti e Sport alla Rovescia.


Giornalisti, scrittori, giocatori e appassionati tra Napoli, Roma, Milano, Genova, Bologna, Padova, Castel Di Sangro, Londra, Manchester, Nottingham, Liverpool, Preston…


Gli stadi, gli oratori, le piazze, i bambini, nei campi di calcio di mezza Italia e Inghilterra.
Tutti e tutto nel comune denominatore della passione "nel pallone", attraverso cui leggere la storia della cultura popolare e il racconto del racconto del Calcio.




Documentario scritto da WU MING 3 (Luca Di Meo), Christiano XHO Presutti, Giangiacomo De Stefano e raccontato da WU MING 2 (Giovanni Cattabriga), Produzione: La Effe TV (Feltrinelli) e Sonne Film.

mercoledì 25 marzo 2015

mercoledì 11 marzo 2015

Qui Supramonte, a voi Marassi


Sempre la stessa storia, quando ascolto “L’indiano” di Fabrizio De Andrè. Comodo sul mio divano scomodo, metto su l’album e mi godo gli shuffle di chitarra elettrica e il blues di “Quello che non ho”, una delle mie canzoni preferite in assoluto. Poi mi immergo nella poesia del “Canto del pastore servo”, del “Fiume Sand Creek” e di “Ave Maria”. E poi parte la traccia cinque e sono sopraffatto da un’emozione che rende impervia la strada per “Franziska”.
La traccia cinque è “Hotel Supramonte”. Un brano con un arrangiamento acustico su un tappeto di archi elettronici e un testo delicato e struggente, di un intimismo quasi doloroso. Racconta il sequestro di De Andrè e della moglie Dori Ghezzi per mano dell’Anonima Sequestri nel 1979, una storia di cui so tutto quello che gli innamorati cronici dell’arte di Faber sanno: il distacco da Genova, con cui “è stato meglio lasciarsi che non essersi mai incontrati”, il trasferimento nella tenuta sarda a due passi da Tempio Pausania, la subitanea infatuazione per il popolo isolano, il rapimento nella notte del 27 agosto, i quattro mesi di prigionia circondati di natura, sospiri e pioggia, il rapporto umano con i carcerieri, che consentivano ogni tanto ai due di rimanere slegati e senza bende, l’intimità con Dori. E poi il pagamento del riscatto e la liberazione, il perdono degli autori materiali del sequestro (ma non dei mandanti), la scelta di non costituirsi parte civile contro i suoi custodi, come li definisce lui stesso, addirittura di firmare la domanda di Grazia al Presidente della Repubblica nei confronti di uno di loro. Un pastore sardo condannato a venticinque anni di prigione, pena di molto superiore a quella dei committenti.
Quello che non sapevo e che ho scoperto nel pomeriggio di una recente domenica grigia e uggiosa è che l’empatia tra carcerato e carcerieri si fondava sulla passione per il calcio. E che l’unico contatto con il mondo esterno che De Andrè abbia chiesto e ottenuto erano i risultati del suo Genoa. Che determinavano il suo umore al punto che, racconterà, uno dei giorni peggiori fu quando seppe che i rossoblù avevano perso a Terni. Non immaginavo questa passione, ho approfondito e ho scoperto un mondo.
C’è una vasta aneddotica che lega De Andrè ed il Grifone. C’è De André che nasce nell’ultima settimana in cui il Genoa è primo in classifica nella sua storia, a quel punto del campionato. C’è la prima volta a Marassi nel 1947, a vedere Genoa-Torino e a scoprirsi genoano “per una forma di antagonismo precoce” contro suo padre e suo fratello, tifosi granata. Ci sono le agende in cui appunta le formazioni del Genoa, le tabelle salvezza, i sogni di mercato. C’è Paolo Villaggio, grande tifoso doriano e ancor più grande amico di Faber, che non si rassegna neanche dopo la morte al suo credo genoano. C’è, forse, la tentazione di scrivere un inno, e c’è la motivazione del rifiuto che è una dichiarazione d’amore più grande di qualsiasi inno: “Non posso scrivere del Genoa perché sono troppo coinvolto. L’inno non lo faccio perché non amo le marce e perché niente può superare i cori della Gradinata Nord. Semmai al Genoa avrei scritto una canzone d’amore, ma non lo faccio perché per fare canzoni bisogna conservare un certo distacco verso quello che scrivi, invece il Genoa mi coinvolge troppo”.
Chissà se gli sarebbe piaciuto questo Genoa che ogni volta che accarezza qualche velleità europea viene smantellato. Come se negasse ai suoi tifosi la possibilità di sognare. Immagino che avrebbe stimato Gasperini e avrebbe malsopportato Preziosi e tutto il suo universo di Gormiti, presunte combine, valigette zeppe di soldi, calciatori comprati e venduti come figurine. Immagino avrebbe tifato comunque il suo “Zena”, perchè, per dirla con le sue parole, “il tifo è una sorta di fede laica, nasce da un bisogno forse infantile ma pur sempre umano”. Ma sono certo che non avrebbe potuto fare a meno di amarlo. Perchè, di Grifone, Faber era malato. Per sua stessa ammissione, quando durante un concerto si fermò, poggiò per terra la chitarra e disse: “Scusate, vi devo dire una cosa. Ho una malattia”. Silenzio. Di tutti. Tirò fuori una sciarpa rossoblù. “Il Genoa. La mia malattia si chiama Genoa”. Chissà se è la stessa sciarpa rossoblù con cui si è fatto cremare.
© Gianni Marzano

venerdì 6 marzo 2015

"Il Grifone fragile": passione e sentimenti del genoano Fabrizio De Andrè


«Fabrizio De Andrè […] rientra in quella finora innominabile categoria senza genere di geni, di poeti, filosofi, persino martiri, che hanno amato e amano il pallone. Gli insospettabili. Gli insoliti noti».

Con questa bellissima frase ho deciso di iniziare la presentazione del libro dedicato ad un genoano d’eccezione; non a caso una recensione che compare dopo mesi di silenzio.

Devo dire la verità, cari lettori: l'opera mi ha piacevolmente sorpresa. Ho iniziato la lettura aspettandomi un lavoro di documentazione – poiché l'autore correttamente dichiara di aver lavorato sui materiali dell'Archivio del Centro Studi "Fabrizio De Andrè" presso l'Università di Siena – invece no. O almeno, non solo. Mi sono trovata alle prese con un vero e proprio romanzo; emozionante come un thriller e coinvolgente molto più di una biografia "tradizionale", arricchito da numerosissime testimonianze.

Quel che vorrei sottolineare, al di là del contenuto, è che "Il Grifone fragile" non è un lavoro autoreferenziale. Non è, cioè, scritto da un genoano, ma da un appassionato di De Andrè di dichiarata fede romanista. Eppure parla del Genoa - del nostro Genoa - con un amore e una dedizione esemplari, che forse noi non dedicheremmo a un'altra squadra, nemmeno al nostro "gemello" Napoli. Perché dico questo? Per evidenziare il fatto che, forse, il Genoa, con la sua storia, i suoi personaggi, i suoi tifosi è portatore di valori universali che vanno al di là del calcio giocato.

«Che cos’è il tifo? E’ una sorta di fede laica [...] nasce da un bisogno forse infantile ma pur sempre umano di identificarsi in un gruppo che ha come fine la lotta per la vittoria contro altri gruppi. Questo desiderio primario può essere contenuto in una rivalità sportiva o sconfinare nel fanatismo, ma questo penso sia un problema che in parte deriva dal carattere dei singoli, in parte dall’educazione che i singoli ricevono dalla società. Voglio dire che un individuo facilmente influenzabile, a cui la società insegna continuamente che la vita è soltanto una lotta a coltello per la sopravvivenza, facilmente diventerà un fanatico e nel momento in cui ipotizzerà la sconfitta della propria squadra in cui si identifica per un bisogno di protezione, considererà tale sconfitta, sia prima che la sconfitta si verifichi, per scongiurarne sia dopo che si è verificata, per vendicarsi...Il fattore “fanatismo” anche questo deriva dai pessimi esercizi e dai cattivi insegnamenti degli oligarchi e della civiltà dei consumi».

Non è un politologo o un sociologo che parla: è un cantante che ha sempre fatto della coerenza una regola di vita. E’ quella persona che ha rifiutato l’abbonamento onorario in tribuna d’onore al Genoa per la stagione 1998-99. E’ quella persona che invece di scegliere la via dritta della carriera paterna ha deciso di vivere di canzoni, che ha deciso, in un certo senso, di allontanarsi dalle orme di famiglia, come un moderno Francesco che restituisce le ricchezze al padre e si riveste di un solo saio.

Questo e molto altro troverete ne “Il Grifone fragile”, cari lettori.

Ve ne raccomando la lettura.


18.08.2013

© Monica Serravalle