mercoledì 11 marzo 2015

Qui Supramonte, a voi Marassi


Sempre la stessa storia, quando ascolto “L’indiano” di Fabrizio De Andrè. Comodo sul mio divano scomodo, metto su l’album e mi godo gli shuffle di chitarra elettrica e il blues di “Quello che non ho”, una delle mie canzoni preferite in assoluto. Poi mi immergo nella poesia del “Canto del pastore servo”, del “Fiume Sand Creek” e di “Ave Maria”. E poi parte la traccia cinque e sono sopraffatto da un’emozione che rende impervia la strada per “Franziska”.
La traccia cinque è “Hotel Supramonte”. Un brano con un arrangiamento acustico su un tappeto di archi elettronici e un testo delicato e struggente, di un intimismo quasi doloroso. Racconta il sequestro di De Andrè e della moglie Dori Ghezzi per mano dell’Anonima Sequestri nel 1979, una storia di cui so tutto quello che gli innamorati cronici dell’arte di Faber sanno: il distacco da Genova, con cui “è stato meglio lasciarsi che non essersi mai incontrati”, il trasferimento nella tenuta sarda a due passi da Tempio Pausania, la subitanea infatuazione per il popolo isolano, il rapimento nella notte del 27 agosto, i quattro mesi di prigionia circondati di natura, sospiri e pioggia, il rapporto umano con i carcerieri, che consentivano ogni tanto ai due di rimanere slegati e senza bende, l’intimità con Dori. E poi il pagamento del riscatto e la liberazione, il perdono degli autori materiali del sequestro (ma non dei mandanti), la scelta di non costituirsi parte civile contro i suoi custodi, come li definisce lui stesso, addirittura di firmare la domanda di Grazia al Presidente della Repubblica nei confronti di uno di loro. Un pastore sardo condannato a venticinque anni di prigione, pena di molto superiore a quella dei committenti.
Quello che non sapevo e che ho scoperto nel pomeriggio di una recente domenica grigia e uggiosa è che l’empatia tra carcerato e carcerieri si fondava sulla passione per il calcio. E che l’unico contatto con il mondo esterno che De Andrè abbia chiesto e ottenuto erano i risultati del suo Genoa. Che determinavano il suo umore al punto che, racconterà, uno dei giorni peggiori fu quando seppe che i rossoblù avevano perso a Terni. Non immaginavo questa passione, ho approfondito e ho scoperto un mondo.
C’è una vasta aneddotica che lega De Andrè ed il Grifone. C’è De André che nasce nell’ultima settimana in cui il Genoa è primo in classifica nella sua storia, a quel punto del campionato. C’è la prima volta a Marassi nel 1947, a vedere Genoa-Torino e a scoprirsi genoano “per una forma di antagonismo precoce” contro suo padre e suo fratello, tifosi granata. Ci sono le agende in cui appunta le formazioni del Genoa, le tabelle salvezza, i sogni di mercato. C’è Paolo Villaggio, grande tifoso doriano e ancor più grande amico di Faber, che non si rassegna neanche dopo la morte al suo credo genoano. C’è, forse, la tentazione di scrivere un inno, e c’è la motivazione del rifiuto che è una dichiarazione d’amore più grande di qualsiasi inno: “Non posso scrivere del Genoa perché sono troppo coinvolto. L’inno non lo faccio perché non amo le marce e perché niente può superare i cori della Gradinata Nord. Semmai al Genoa avrei scritto una canzone d’amore, ma non lo faccio perché per fare canzoni bisogna conservare un certo distacco verso quello che scrivi, invece il Genoa mi coinvolge troppo”.
Chissà se gli sarebbe piaciuto questo Genoa che ogni volta che accarezza qualche velleità europea viene smantellato. Come se negasse ai suoi tifosi la possibilità di sognare. Immagino che avrebbe stimato Gasperini e avrebbe malsopportato Preziosi e tutto il suo universo di Gormiti, presunte combine, valigette zeppe di soldi, calciatori comprati e venduti come figurine. Immagino avrebbe tifato comunque il suo “Zena”, perchè, per dirla con le sue parole, “il tifo è una sorta di fede laica, nasce da un bisogno forse infantile ma pur sempre umano”. Ma sono certo che non avrebbe potuto fare a meno di amarlo. Perchè, di Grifone, Faber era malato. Per sua stessa ammissione, quando durante un concerto si fermò, poggiò per terra la chitarra e disse: “Scusate, vi devo dire una cosa. Ho una malattia”. Silenzio. Di tutti. Tirò fuori una sciarpa rossoblù. “Il Genoa. La mia malattia si chiama Genoa”. Chissà se è la stessa sciarpa rossoblù con cui si è fatto cremare.
© Gianni Marzano

Nessun commento:

Posta un commento