giovedì 26 febbraio 2015

La tribù viaggiante di De André e PFM

"De André che dorme per terra contro un termosifone? Non si era mai visto nulla del genere. Chi l'avrebbe mai immaginato che, da poeta di parole, Fabrizio potesse trasformarsi in poeta di strada? Le foto raccolte in "Evaporati in una nuvola rock" restituiscono un viaggio autentico mai rappresentato prima in Italia. La vita di tournée è così irreale da rendere azzardato botti di foto-verità, ma questo a quell'epoca mi premeva cogliere: la ruvidità più segreta di una tribù viaggiante, il lato ludico di Fabrizio, solo in parte affiorante nelle sue canzoni, e la forza prorompente di PFM. Non era questione di esibizionismi da rockstar angloamericane: volevo semmai catturare la magia di un incontro di artisti e di amiciche si sprigionava nel pallore lunare dei camerini, nell'apnea di suoni millesimati in prove su prove e nell'adrenalina a mille di concerti memorabili. Oggi sarebbe impossibile fotografare degli artisti così disarmati e così vivi, ma qui siamo nel 1978-1979. In queste fotografie nessuno è in posa, pur sapendo di essere fotografato. Nessuno se n'è preoccupato. Men che meno Fabrizio-Coda di lupo alla guida dei suoi guerrieri." Guido Harari






















mercoledì 18 febbraio 2015



Papà Giuseppe mette sul grammofono il Valzer campestre di Marinuzzi quando a casa De André nasce Fabrizio. Un gesto lieve, di una poesia vera. Di papà. È domenica, il 18 febbraio 1940, il giorno in cui Dio riposa, s’ascolta quel valzer che gli arriva da Pegli, e gli uomini giocano a pallone. Fabrizio De André nasce il giorno in cui gioca il Genoa. C’è poesia anche in questo, ma non basta. Non basta mai se sei genoano e ti ritrovi al mondo con nove scudetti vinti ai tempi di Ryu ragazzo delle caverne, sei appena nato ma sei nato prima di tutti che manco Adamo era un progetto eco-sostenibile e già per questo il tuo destino è tendere al decimo tricolore, col kantiano dovere morale di inseguire una Stella. Sei un Grifone, sai camminare e sai volare, sarai condannato a inseguirla sempre, non potrai e non vorrai farne a meno per aria, per terra, per mare. Là dove finiscono le tue dita iniziano gli artigli per afferrarla. Non possono e non vogliono farne a meno nemmeno i genoani che hanno seguito il Genoa a Novara, stadio comunale del Littorio, un campo da gioco di 100 metri per 65 in viale Alcarotti. Inverno. Il cielo è più pulito. È la ventesima giornata del campionato di calcio di serie A, stagione 1939-40. Ci sono dodicimila persone domenica 18 febbraio 1940. Il Genoa si chiama Genova 1893 per l’autarchia fascista, è guidato da un grande allenatore non autarchico perché si chiama William Garbutt, una volta giocava in Inghilterra con il Reading (la squadra di Simon Gallup, il bassista dei Cure), il Blackburn e l’Arsenal. Un giorno William Garbutt decise di venire a lavorare a Genova nel porto e lì – non si sa bene come – divenne il primo mister del nostro campionato. Se gli italiani chiamano gli allenatori «mister» è per questo motivo, per William Garbutt, il primo allenatore della vita di Fabrizio De André, uno che viene dal porto: deandreiano. È un buon inizio. Anche per il Genoa che segna poco dopo la mezzora, gol di Bertoni I, la prima rete anagrafica di Fabrizio De André. Come una specie di omaggio per la Natività. Tanti magi senza corona e senza coppa vestiti in calzoncini rossi e la maglietta blu. Nella ripresa non succede niente tranne una cosa, è il piccolo particolare che, come una distrazione, si frappone fra il primo enghé di un neonato e la Storia delle maiuscole: l’arbitro Scarpi di Dolo fa battere al Genoa il calcio d’inizio della ripresa; tutto normalissimo se non fosse che il Genoa aveva già battuto il calcio d’avvio della partita. Il capitano Scarabello se ne accorge: «Guardi che non tocca a noi, l’abbiamo già fatto nel primo tempo» fa al signor Scarpi di Dolo, che risponde: «Non è così». Invece era così. Invece – e pare proprio per Dolo – è così che inizia la storia dei condizionali, del sarebbe potuto essere e del sarebbe dovuto andare diversamente, del quando verranno a chiederti del nostro amore e dell’amore di Fabrizio De André per il Genoa rispondetegli che la sua prima partita, quella vinta 1-0, non è stata omologata. Succede questo in quella domenica delle salme (l’arbitro e i suoi assistenti). È evidente che soprattutto quel giorno Dio riposava. Perché un guardalinee denuncerà l’errore tecnico tanto che il Giudice sportivo annullerà il risultato ordinando la ripetizione: si rigiocherà soltanto l’8 maggio, vincerà il Novara 3-1, quando ormai sarà tutto inutile. Inutile per tutto: lo scudetto. L’8 maggio (il giorno e il mese del primo scudetto del Genoa) il campionato per il Grifone sarà già andato in un’altra direzione, non si sa quanto ostinata ma sicuramente contraria. Perché quando è nato Fabrizio De André non soltanto giocava il Genoa e il Genoa vinceva una vittoria che non valeva niente in una partita che valeva tutto, ma quel giorno, in quel lungo particolarissimo istante, il Genoa era primo in classifica a non molte giornate dalla fine: Genoa e Bologna 26 punti, Ambrosiana 25, Lazio 22, Torino e Juventus 21, Milan 20, Roma e Venezia 19, Bari, Novara e Triestina 18, Fiorentina e Liguria 16, Napoli 11, Modena 9. Con quella vittoria il Genoa si sarebbe confermato capolista proprio nella settimana che avrebbe portato allo scontro diretto di Marassi col Bologna. Odor di cielo. Ma un guardalinee senza nome, come una spia perfetta, e con la scorta, un arbitro arrivato da un Paese chiamato Dolo, ha girato le carte, truccandole: da quel momento il Genoa comincerà a perdere. La prima vittoria della vita terrena di Fabrizio De André arriverà soltanto il 17 marzo, 3-1 contro il Venezia: c’è qualcosa di più romantico? C’è qualcosa di più rivoluzionario e fragile di questo karma che alla nascita reclama che vincere non vale? Che il profitto non conta? 

Che le vere storie sono quelle non omologate, quelle che scorrono, perché stanno a lato, nascoste, difficili da dire, quelle che vanno vissute allo stadio ma riviste inutilmente alla moviola e che fuggono, a volte letteralmente, sulla tangenziale? C’è qualcosa di più poetico? Sì. Da quel momento, dal giorno in cui è nato un Fabrizio De André proprio piccoletto piccoletto in via De Nicolay 12, alle ore 12, il Genoa non è più stato primo in classifica a quel punto del campionato. Così primo. Così in testa. Così campione. Così vicino alla Stella non c’è stato mai più. Mai più, nemmeno come una distrazione, come un dovere, come una fortuna. Mai, nemmeno lontanamente. Mai e basta. Cioè: mai. Il momento più simile è un 2 ottobre del 1977, quando con 6 punti il Grifone volava superbo in testa perché era soltanto la quarta giornata: talmente effimero come primato che alla fine retrocederà. Sono passati più di ventiseimila giorni e due-tre secondi (quattro-cinque-sei...), ma il Genoa non è più stato così in alto. Così solo. Così bello. Così in grado di volare come il 18 febbraio 1940. Almeno sembrava a tutti nel giorno del Signore in cui un Bambino figlio di Giuseppe veniva al mondo. Visto da qui in basso si vede meglio, visto con la sciarpa che dorme accanto a Faber adesso, si dice meglio: l’ultima volta che il Genoa ha toccato la Stella è stato il giorno in cui è nato Fabrizio De André. E forse proprio nel momento stesso, esatto, adiacente, puntuale in cui è successo. Una doppia nascita che è insieme un inizio e una fine. Un Natale e una Pasqua. Un chiasmo temporale. Benvenuto in questo primo addio, piccolo Faber. Un ossimoro, come una vittoria che non vale. Una specie di cometa pasquale per illuminare brevemente, quasi a intermittenza, quelle ore uniche e definitive: una Stella che se ne va, una Stella che viene. È bello pensare che Fabrizio De André sia arrivato dal cielo per attaccarsi a una zinna di mamma. Una Stella che si stacca contemporaneamente dal firmamento e dal petto di una maglia in quella domenica in cui c’è stato un doppio calcio d’inizio: quello della storia, dei tabellini, degli arbitri, della burocrazia, della corrente, dei regolamenti, degli avvocati felici, dei matrimoni per forza, della rosa e del tulipano; e quello dei mille papaveri rossi, della vita, del sangue, del latte, della poesia, delle ragadi, del sogno, della strada, del Genoa. Fabrizio De André sceglierà sempre la Via del Campo, lì le puttane hanno gli occhi color di foglia e con quelli è più facile vedere cadere le stelle. Sarà il suo valzer campestre. E la sua vita sarà cometa per consegnare alla morte una goccia di splendore. Di verità. Come questa: quella partita non andava ripetuta.

Novara - Genoa 0-1 (n.o.)
18 febbraio 1940
Novara, stadio comunale del Littorio, viale Alcarotti, campo 120x65

Novara: Scansetti, Bonati, Galimberti, Rigotti, Mornese, Vale, Mascheroni, Romano, Muci, Galli, Calzolai. All. Carlo Rigotti

Genoa: Ceresoli, Marchi, Sardelli, Genta, Villa, Perazzolo, Neri, Arcari IV, Bertoni, Scarabello, Conti. All. William Garbutt

Arbitro: Scarpi di Dolo
Marcatore: 33' pt Bertoni
Note: la partita non verrà convalidata per errore tecnico dell’arbitro che ha fatto battere due volte il calcio di inizio nei due tempi al Genoa

Genova, 18 febbraio 1940



Il calcio, la tv. L’altro Fabrizio sapeva godersi le giornate di «bonaccia»


Non vado pazzo per le celebrazioni, le beatificazioni, le rievocazioni. Normalmente ne sto lontano, perché considero sacrosanto solo il ricordo strettamente personale dei fatti e delle persone. Quello, per intenderci, che si conserva da soli, in silenzio. Ma certo si può ammettere qualche legittima deroga a tutto questo. Fabrizio De André è stato ricordato e celebrato, forse ogni singolo giorno dal momento della sua scomparsa, come non era accaduto prima a nessun grande artista italiano. Questo testimonia il vuoto tangibilmente grande che ha lasciato nel cuore e ancor più nel bisogno di conforto dei molti che lo hanno amato. Piccole e grandi celebrazioni avvenute un poco dovunque in giro per l’Italia. Tributi sempre più o meno accorati e a distanza di dieci anni non ancora liberati del tutto dall’ombra accompagnatrice del rimpianto. Perfino la sorpresa, per la perdita di quell’uomo così discreto ma così presente nella storia dei sentimenti di questo Paese, si è fatta sentire fino all’ultimo, cioè fino a oggi. Così le celebrazioni sono state spesso vagamente lacrimose.
La memoria di Fabrizio ha diritto oggi a qualcosa di diverso, ne sono più che convinto. Merita più delle agiografie, delle biografie, delle scontate raccolte di canzoni rimasterizzate e reimpacchettate. Merita soprattutto di sfuggire all’aneddotica prêt à porter cui vengono fatalmente adattate le figure dei grandi artisti quando non sono più in grado di confutare o di precisare. Quando gli amici, i compagni di strada, quelli che sanno, che hanno visto, quelli che c’erano, si moltiplicano a dismisura.
«Fabrizio oggi è di tutti» dice Dori Ghezzi con tollerante senso della realtà. Purtroppo nessuna seriosissima esegesi, nessuno scandagliamento della sua opera ci restituisce la complessità, o se si preferisce, la completezza del carattere di De André. Così, personalmente, ho più cara nei miei ricordi la parte di lui che lo faceva «parlare basso», da buon genovese a un altro genovese. Niente lessico da libro stampato, nessun massimo sistema, ma frequenti risultati di partite di calcio. Il Genoa. E magari qualche gioioso apprezzamento per rotondità muliebri fuggevolmente offerte da programmi tv di taglio basso. Garbato e sornione s’intende, in salsa fredda, alla ligure. Un mondiale di calcio, il festival di Sanremo, le televendite. Qualche lieve ubriacatura. Un po’ di birre a Sestri Levante per festeggiare il testo di «A Cimma», che ci era sembrato irraggiungibile. E improvvisamente le ginocchia di tutti e due che non reggono più per tornare a casa. Perché non erano più gli anni settanta. Era questo un De André «semplificato» che la gente avrebbe amato e compreso ancora di più, se è mai possibile. Le leggerezze dette a piena bocca umanizzano. Sono un dono che il cielo fa agli uomini di grande intelligenza, i quali se vogliono ne usano, come per cercare riposo. Alcuni che idealizzano e rendono monumentali uomini e artisti, secondo un’immagine che non ammette imperfezioni, non capirebbero.

Fabrizio era vitale e come ogni persona del suo tipo era capace di scarti improvvisi, di spiazzamenti all’interno del suo stesso essere. Figurarsi all’esterno, cioè stargli vicino. Giornate intere di bonaccia, calma quasi piatta, e poi improvvise scosse elettriche con rincorse verso l’alto o verso il basso. In alto lo spirito filosofico e in basso il fondo dei garbugli umani. Secondo l’umore, secondo la giornata. Troppo terribilmente intelligente per definirlo un buono. Ma quest’ultimo era il Fabrizio che preferivo. Invece il grande artista, quello come tutti se lo sarebbero aspettato, lo conoscevo bene. Ero stato un suo ammiratore molto prima che un suo amico. A poco più di vent’anni avevo letteralmente consumato sul piatto del giradischi «Non al denaro, non all’amore, né al cielo» e «Storia di un impiegato».
Tenevo in considerazione quei due album al pari di quelli di Jimi Hendrix o degli Stones. Nessuna differenza. Come se la musica di Fabrizio fosse arrivata anch’essa dall’America, da Plutone o da un pianeta ancora più lontano, sul quale fosse lecito scrivere canzoni in italiano. L’eroe che aveva tradotto in musica «Spoon River», allontanandola dalla noia delle antologie scolastiche lo conoscevo già. Ora a distanza di anni, durante la scrittura di «Anime salve» mi piaceva di più passare quei lunghi pomeriggi piemontesi con un Fabrizio quieto e sorridente, accovacciato a terra davanti a un apparecchio radio degli anni sessanta, in attesa dei risultati delle partite di calcio, la domenica pomeriggio.
«Il Genoa, il Genoa, cos’ha fatto il Genoa»? Ma la sua squadra del cuore non brillava granché in quel periodo. Forse questo decennale e la grande mostra che si inaugura a Genova non faranno di Fabrizio De André un immobile monumento. Forse a Genova la marea di gente che gli vuole bene potrà servirsi da sé a piene mani e ubriacarsi di dati, ricordi e racconti digitali. In mezzo a tutte quelle immagini io dico che dovrà essere come un prolungato abbraccio festoso. Senza più ombra di rimpianto. Anche per via di quella gioia che infonde, soprattutto nei ragazzi, il poter rovistare navigando nella tecnologia. E la tecnologia risponde nell’unico modo che sa: raccontando perfettamente il passato, ma con la voce del futuro.
Ivano Fossati 
(Questo articolo di Ivano Fossati è apparso sulla copertina dello speciale Eventi del Corriere della Sera dedicato alla mostra su Fabrizio De André per il decennale della scomparsa che si apre il 31 dicembre al Palazzo Ducale di Genova.)

mercoledì 11 febbraio 2015

Il Grifone fragile a casa sua

Da Berghem

Il Grifone Fragile





«Che cos’è il tifo? E’ una sorta di fede laica [...] nasce da un bisogno forse infantile ma pur sempre umano di identificarsi in un gruppo che ha come fine la lotta per la vittoria contro altri gruppi. Questo desiderio primario può essere contenuto in una rivalità sportiva o sconfinare nel fanatismo, ma questo penso sia un problema che in parte deriva dal carattere dei singoli, in parte dall’educazione che i singoli ricevono dalla società. Voglio dire che un individuo facilmente influenzabile, a cui la società insegna continuamente che la vita è soltanto una lotta a coltello per la sopravvivenza, facilmente diventerà un fanatico e nel momento in cui ipotizzerà la sconfitta della propria squadra in cui si identifica per un bisogno di protezione, considererà tale sconfitta, sia prima che la sconfitta si verifichi, per scongiurarne sia dopo che si è verificata, per vendicarsi...Il fattore “fanatismo” anche questo deriva dai pessimi esercizi e dai cattivi insegnamenti degli oligarchi e della civiltà dei consumi».

Non è un politologo o un sociologo che parla: è un cantante che ha sempre fatto della coerenza una regola di vita. E’ quella persona che ha rifiutato l’abbonamento onorario in tribuna d’onore al Genoa per la stagione 1998-99. E’ quella persona che invece di scegliere la via dritta della carriera paterna ha deciso di vivere di canzoni, che ha deciso, in un certo senso, di allontanarsi dalle orme di famiglia, come un moderno Francesco che restituisce le ricchezze al padre e si riveste di un solo saio.

Fabrizio De Andrè […] rientra in quella finora innominabile categoria senza genere di geni, di poeti, filosofi, persino martiri, che hanno amato e amano il pallone. Gli insospettabili. Gli insoliti noti. 
Genoano sfegatato, al limite della sanità mentale. Una genoanità che è genovesità nel momento in cui questa passione viene nascosta, difesa, tenuta per sé e condivisa, mostrata, come un fiume in piena, solo a chi ti conosce bene al limite di chiedere, durante il rapimento, i risultati del Genoa.

"Il Grifone fragile" del titolo è un libro uscito l'anno scorso, bellissimo, sul grande cantautore genovese e sulla sua grande passione per il Genoa. Un amore e una dedizione esemplari, che parecchi anche tra noi, atalantini, che tanto ci vantiamo dell'attaccamento ai nostri colori, non saremmo capaci di dedicare alla nostra squadra. 

Perché dico questo? Per evidenziare il fatto che, forse, il Genoa, con la sua storia, i suoi personaggi, i suoi tifosi è portatore di valori universali che vanno al di là del calcio giocato.

Anche quando si mischia alla genovesità: riservati, schivi, ma caldi ed “espansivi” con i propri simili. Un po', noi bergamaschi, ci assomigliamo a loro, tanto da esserci gemellati con la Doria, proprio perchè ci si sposa con qualcuno di diverso, il piu' delle volte almeno, piuttosto che con qualcuno uguale a te. 

Il genoano soffre, pesa il risultato del campo, ma quello che conta è l’origine, la radice, l’essere genoani, vivere la genoanità, sentirsi sulle spalle il peso della storia, di quella maglia, della storia del calcio, della storia del paese, della città e del suo retroterra. Bergamo un po' come Genova, certo su scala diversa (anche nel calcio, quando mai abbiamo scudetti alle spalle anche se di un secolo fa?) 

Noi siamo la provinciale con piu' storia, loro la storia l'hanno iniziata andandosi a vincere quasi tutti i primi scudetti del nuovo sport, alla fine del XIX secolo.

Domani, giorno della Befana, ci incontriamo per la medesima volta con loro. Niente doni per noi. Nè in campo, da tempo non c'e' piu il numero 27/72, nè sugli spalti perchè la parte poco sana del nostro tifo si è messa la dita nel naso un po' troppe volte per non suscitare ribrezzo in certi ambienti.

Godiamoci la partita fregandocene dei pronostici. Fu la prima partita in campionato di Maxi 3 anni fa, fece due gol e faville da stropicciarci gli occhi a noi che non lo conoscevamo. Poi torno' sulla terra e noi con lui ma il Picinela è ancora uno dei punti di forza dell'Atalanta non trascendentale di quest'anno. Forza ragazzi!

di Calep