“Chi
guarda Genova sappia che Genova si vede solo dal mare” canta Ivano
Fossati, prefatore del volume dedicato all’amore di Fabrizio de Andrè
per il Genoa. E chi meglio di colui che ha narrato la storia del Mare di
Roma (Daniele De Rossi), il vicedirettore de Il Romanista, Tonino
Cagnucci, poteva accingersi a realizzare una fatica letteraria che
soprattutto è un atto d’amore. Un atto d’amore di un romanista per un
intellettuale amante del pallone e della prima squadra italiana di
calcio. Loro sì, il calcio l’hanno portato veramente e non in una città,
ma in un paese intero.
Faber è genoano prima
di nascere e lo sarà fino a morire facendosi cremare con la sciarpa
rossoblu, lui che scelse di diventarlo il giorno nel quale il Genoa
perse contro il grande Torino nel 1947, andando contro il padre ed il
fratello granata, una scelta contro, di un uomo che già a sette anni
sapeva stare solo dalla parte dei deboli, in direzione ostinata e
contraria. Una passione, quella per il calcio in generale e per il Genoa
in particolare, rimasta sempre sullo sfondo delle biografie uscite in
questi ultimi anni ma che Cagnucci ha il merito di scandagliare in
profondità giovandosi delle agende personali del cantautore genovese
conservate nel centro studi a lui dedicato dall’Università di Siena, e
che nascondono un De Andrè diverso. In quelle pagine si nascondono le
stesure originali del disco “Le Nuvole” assieme a schizzi di formazione,
a calcoli, a tabelle salvezza, a note davvero illuminanti che sembrano
scritte da un direttore sportivo e restituiscono l’immagine di un tifoso
talmente acceso che si rifiutò sempre di scrivere una canzone che
lontanamente parlasse del Genoa. La canzone per una squadra avrebbe
rischiato di trasformarsi in un inno patriottico o campanilistico, due
aggettivi dai quali Fabrizio rifuggiva.
Il libro è
sorprendente come la biografia stessa di De Andrè spesso descritto, in
vita come un musone, misantropo interessato solamente a se stesso e alla
musica e invece, lo si è scoperto una delle persone più attente al
valore dell’amicizia. E ci sono amicizie e presenze sorprendenti che
aiutano a declinare la passione tutta deandreiana per il Grifone
genoano: don Andrea Gallo, Riva, Turone (proprio lui, quello
“dergodeturoneerabbono”), Venditti, Zigoni, e financo Villaggio e i New
Trolls nonostante fossero doriani. Un amore senza tentennamenti,
profondo, vero, cieco come il vero amore deve essere, quello che gli fa
dire alla fine del suo primo matrimonio, “è stato meglio lasciarci che
non esserci mai incontrati” (Giugno 73, non è solo la fine di un amore
ed il titolo di una canzone ma è l’anno della promozione in serie A del
Genoa). Un amore che resiste a tutto perfino alla prigionia. Ospite
costretto nello scomodo Hotel Supramonte, assieme alla moglie Dori,
vengono sequestrati per mesi dall’Anonima sarda per quattro mesi, nel
1979. Ai banditi che lo chiamavano Signore e che lui perdonerà aveva una
sola, pressante richiesta, fargli sapere i risultati del Genoa. Non la
fame, non il freddo ma la voglia di non tagliare del tutto il cordone
ombelicale con la “signora libertà”. La crudele ironia volle che una
delle partite ascoltate alla radio, per concessione dei banditi, fosse
una partita che il Genoa perse tre a zero contro la Ternana, giocata
nello stadio del capoluogo umbro che si chiama Liberati. Ma quando
vennero liberati veramente il Grifone gli regalò una vittoria sofferta
contro il Taranto, segno evidente e manifesto della fine dell’incubo.
Proprio la prigionia fu l’epifania del sentimento genoano, l’amore per
il Grifone si manifestò nel momento peggiore della vita di Faber ma fu,
probabilmente, l’ancora di salvataggio per poter resistere. Il Genoa lo
aveva accompagnato sin dalla nascita anzi prima, “io sono genoano da
prima di nascere”, era stato la colonna sonora dei momenti felici e bui
della sua vita tanto da far dichiarare a Dori Ghezzi che il Genoa
“l’amava Fabrizio quindi l’amo anch’io”.
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